Raffaele Crovi non ha mai scritto un libro sulla Resistenza, anche se, come racconta nel sessantatreesimo capitolo del romanzo Le parole del padre, fin da giovanissimo, liceale a Correggio, aveva progettato di scriverne uno, a cui aveva dato il titolo Cronache della paura. Poco conta, qui, ricostruire l’iter compositivo di certe pagine o di certi racconti, quanto invece soprattutto riflettere sui due elementi che compongono quel titolo. Il primo, forse istintivamente (o forse invece ennesimo testimone di una precoce intelligenza di lettore e di critico) allude al genere della cronica medievale, modello spesso utilizzato o preso come ispirazione nella narrativa croviana matura; il secondo, è invece emblematico e rappresenta alla perfezione il nodo che lega Raffaele Crovi, nato nell’aprile del 1934, alla Resistenza. La paura, il trauma generato dalla violenza della guerra, è il sentimento paralizzante con cui si conclude anche la poesia Al cinema, scritta in quegli stessi anni correggesi, nel 1951: «Mentre masticavo tranquillo / semi di zucca seduto al buio / nella platea del Politeama Mariani / sullo schermo in un’orrenda sequenza / una SS ha sgozzato, / sull’aia sterrata / di una casa colonica / un contadino ed il suo maiale. / Il sangue vivo delle due creature / si è perso nel fango morto / e di colpo la mia bocca / si è riempita / dell’acida saliva della paura». Proprio all’apice di quel breve arco di mesi segnato dalla guerra di liberazione dell’Italia, Raffaele Crovi compie dieci anni, oltrepassando il confine che limitava l’infanzia nel mondo contadino dell’Appennino in cui stava crescendo.
«Quell’inverno del ’44 la festa cruenta della macellazione [del maiale] mi ricordò, tuttavia, la violenza della guerra e la ferocia umana: nel dicembre dell’anno finito da poco, i nazifascisti avevano fucilato i sette fratelli Cervi di Campegine; quattro settimane dopo, a gennaio, era stato ucciso don Pasquino Borghi; ogni tanto spariva qualcuno e veniva ritrovato cadavere; un diciassettenne e un ventenne (per motivi o alibi politici) addirittura scannati». E, anche accettato che la violenza «qualche volta è sostanza della storia», resta comunque indelebile nella memoria dell’uomo e dello scrittore, dell’intellettuale e del cittadino Raffaele Crovi la ferita di questa violenza che segna il suo ingresso nel mondo degli adulti.
L’apolide di origini rumene, Emile Cioran, che proprio in quegli anni aveva riveduto le sue giovanili simpatie naziste, scrisse che «ogni vero moralista è uno scorticato: non pensa, non può pensare se non a partire da ciò che lo ferisce». E la ferita incide la pelle, segna il corpo, diviene elemento fisico della memoria, all’interno della natura, diviene storia. La ferita, anche rimarginata, rimane monito per il futuro: è conoscenza. Nasce di qui l’idea di far dialogare le pagine di quest’antologia croviana con i disegni di Omar Galliani, in particolare con quelli del suo ciclo Nuove anatomie, in cui la matrice biologica è fortissima, fin dalla scelta del supporto e dei materiali con cui sono realizzati i disegni, dove l’elemento naturale dei muscoli o quello delle vene, emerge dalla superficie in maniera quasi materica, e si confonde fino a farsi sangue, ferita, colore puro. Metafora ontologica della ferita e del dolore, quasi ostensione dell’endiadi natura e cultura o, più precisamente, dell’impossibilità della cultura di stare senza la natura; il che equivale a riconoscere che «l’intelligenza non dà vita al corpo, è il cuore che lo muove» (Crovi).
«Nessuna nostalgia, / soltanto memoria: / un’energia attuale, / vitale. / Più attenzione per quello / che si è conquistato / che per quello / che si è perduto.» Sono versi tratti da una delle ultime poesie di Raffaele Crovi, eppure non si faticherà a notare questo medesimo atteggiamento in tutti i suoi testi, con coerenza e costanza, siano essi poetici, narrativi o saggistici.
In parte, perché Crovi, «moralista senza moralismi», secondo la felice definizione di Geno Pampaloni, ha improntato la propria attività letteraria all’esigenza di una radicale assunzione di responsabilità personale e dunque necessariamente anche collettiva, politica e per ciò stesso volta alla prassi, alla presente e futura convivenza. In parte, perché il legame forte con l’Appennino, l’amore e la dedizione alle proprie radici sono in Crovi elementi del passato volti sempre al futuro, come chiarisce in modo esemplare il romanzo Appennino, in cui per altro viene messo in scena proprio il rapporto tra letteratura e polis al centro del quale si trova lo scrittore in quanto intellettuale e non solo narratore. La memoria poi, a differenza della nostalgia, tiene lontane le tentazioni di mitizzazione degli eventi, di enfatizzazione della storia, così come la parzialità delle interpretazioni che derivano da prese di posizione ideologiche, aprioristiche. La memoria aiuta a «disertare le astratte verità». Come sempre, in Crovi, prevale la complessità della vita, filtrata da una semplicità dello stile che ne accresce l’evidenza: «Tutta la letteratura della Resistenza è interrogativa e mai celebrativa, perché la Resistenza è stata, per chi l’ha vissuta e per chi l’ha raccontata, un esame di coscienza». E forse in maniera indiretta, in controluce, le pagine croviane qui riunite aggiungono all’esame di coscienza citato quello che potremmo individuare come una sorta di romanzo di formazione.
Questa antologia non ha pretese di originalità: chi conosce i testi di Crovi non troverà sorprese né scoprirà illuminanti scorci mai intravisti prima. L’obiettivo è quello di giustapporre gli elementi di un discorso, sicuro e coerente fin dalle prime battute, che attraversa l’intera vicenda personale e intellettuale, artistica e professionale, di Raffaele Crovi. Il leitmotiv della Resistenza è, a ben vedere, uno dei più articolati e trasversali della sua opera; a questo argomento Crovi ha dedicato moltissime energie, sia come lettore, sia come scrittore, sia come editore. Certo, come dichiarato all’inizio, c’è una contingenza biografica forte all’origine dell’importanza di questo tema nella sua opera; ma è una felice coincidenza, non priva di significativi risvolti, il fatto che la lotta per la conquista della libertà del nostro Paese sia un argomento tanto caro a un uomo che ha fatto della libertà intellettuale, letteraria, editoriale, politica e personale una delle cifre più rappresentative di sé.
Poi, questa coincidenza si rivela ulteriore prova, davvero non necessaria, che i libri e la vita, le pagine e i giorni, erano fatti per Crovi della stessa materia e richiedevano la stessa appassionata e rispettosa attenzione, la stessa fiduciosa e adolescenziale voglia di nuove scommesse, la stessa gioiosa e curiosa ingordigia rabelaisiana.
Non c’è conclusione migliore, presentando un’antologia, che cedere la parola all’autore; in un gioco di identificazione con un personaggio di un suo romanzo, ci piace concludere immaginando Raffaele Crovi in Appennino, un venticinque aprile, ancora: «Dicono che i metati siano stati, negli anni della guerra, preziosi nascondigli. Dicono che gli scampati ai rastrellamenti si portino ancora addosso un leggero odore di fumo. Io oggi mi sono ritirato dentro un metato a leggere Se questo è un uomo di Primo Levi. Oh, diventassi anch’io un uomo dall’odore di fumo».